martedì 16 giugno 2015

Inferno senza ritorno

Ci portano in un magazzino e ci fanno vestire: pantaloni, giacchetta, stivali, casco e pila frontale. Mi sento il tipico minatore da centro divertimento (a Gardaland ti imbarcano nelle carriole e dopo pochi minuti parte il tour attraverso i cunicoli), oppure il ricercatore di oro di Tennant Creek (in Australia esiste un paese nel centro desertico dove ti muniscono di vanga e puoi cercare l'oro nei fiumi). Ma basta percorrere pochi passi verso il monte, varcare la soglia della miniera per capire che non è tutto uno scherzo, che qui la gente fa sul serio e vive in condizioni difficili e disumane. Una volta entrati nella galleria non incontriamo nessuno per minuti e minuti e di nuovo mi dimentico di essere in un luogo reale e mi sento un  po' Indiana Jones. Dobbiamo camminare a testa bassa, rasente i muri, schivare le pozze, strisciare e a tratti salire e scendere scale. Dopo un chilometro incontriamo alcuni uomini che a testa bassa lavorano come animali. Più avanti altri uomini stanno attendendo il carico e ci dedicano alcuni minuti. Generalmente ci dicono la loro età e da quanto lavorano in miniera. Uno di loro ci narra la storia del Tio, lo zio, che è il Dio dei minatori. In ogni miniera si trovano statue di questo diavolo rappresentato nell’atto di masticare coca.Esse non sono concepite dai minatori per terrorizzare, ma semmai per abituarsi a convivere con le paure inconsce della vita sotterranea. E respingerle potrebbe scatenarne il potenziale di sovrumana pericolosità. E’ un esorcismo con protagonisti la Carne, la Morte e il Diavolo. Alla statuina si offrono sigarette e alcool puro, gesti semplici che riassumono meglio di ogni parola la necessità di evasione dei minatori dalla loro dura vita di lavoro. La speranza d’imbattersi in una vena di minerale ricca quanto basta da poter risolvere per sempre le difficoltà del vivere resta un miraggio, come per noi sarebbe un bel tredici al totocalcio, ma è un’illusione che fa tirare avanti. Quando il minatore Juan termina il suo racconto avvincente, il mio sguardo si posa su un ragazzino, dell'età dei miei allievi, con il volto segnato dalla fatica, un bolo di foglie di coca in bocca per alleviare il dolore e la fatica e forse con già l'alcool nel sangue tipico dei minatori. Mi viene il magone e mi manca l'aria. Non ci troviamo sul campo di un videogame, quindi quel ragazzino non dovrebbe essere li. I suoi begli occhi nocciola dovrebbero vedere la luce del sole invece che le tenebre e il diavolo; le sue narici dovrebbero odorare il profumo della madre invece che il tanfo della polvere; le sue dita dovrebbero scrivere parole sul quaderno invece che grattare i muri della miniera per ore interminabili;  il cuore dovrebbe battere per amore e vita invece che fermarsi troppo presto, a causa della malattia dei minatori, la silicosi. 
Il lavoro minorile? Tutti lo conoscono ma finché non lo si vede si può solo immaginarlo e vi garantisco che fa meno male! Per fortuna c'è chi prende davvero a cuore la situazione di questi bambini e si batte per migliorarla  come ad esempio  Marianne Sebastien, cantante lirica svizzera, che ha fondato l'associazione voci libere. "
'Abbiamo dato borse di studio a questi ragazzini perché possano lasciare la miniera’, spiega Mercedes Cortes, una delle coordinatrici di «Voces Libres». Il progetto è agli inizi ma sta funzionando anche se coinvolge solo una parte dei circa 5 mila minori che lavorano a Potosí. Oltre la metà in miniera, almeno duemila nel resto della città”.

La presa di coscienza dell’esistenza di un’umanità che lavora in condizioni disumane non trova sollievo al pensiero che oggi la scelta sia volontaria. Gli  schiavi non avevano alternative ma fino a che punto i minatori di Potosì sono liberi di modificare la propria vita? Fino a che punto, in fondo, lo siamo noi? La differenza è che noi turisti, in ogni caso, abbiamo sempre in tasca il biglietto di andata e ritorno.

Nessun commento:

Posta un commento